Continuiamo il nostro viaggio all’interno del mondo della salute mentale proponendo
ai nostri lettori la lettura di un capitolo del volume “Aspetti
evolutivi dei servizi di salute mentale nel contesto di Trieste” di
Giuseppe Dell'Acqua dove in modo chiaro è netto si analizza il funzionamento e
l’evoluzione del dipartimento di Salute Mentale di Trieste il quale è a detta
della quasi totalità degli operatori il punto di riferimento e l’espressione
massima di funzionalità e di efficienza nell’applicazione della rivoluzione
teorica e pratica di Franco Basaglia. Sperando di aver suscitato l’interesse
vostro nel proporvi tale articolo vi auguriamo buona lettura.
Il Dipartimento
di Salute Mentale Trieste
Amministrare un dipartimento di salute mentale, oggi, significa
riconoscere e trovare continuità con la storia della chiusura del manicomio,
con i processi di deistituzionalizzazione, con i percorsi di crescita e di
riconoscimento del protagonismo e dei diritti delle persone che vivono
l'esperienza del disturbo mentale. Il dipartimento deve per prima cosa
adoperarsi per portare la maggiore quantità possibile di risorse intorno alla
persona, alla sua rete relazionale ed ai suoi bisogni: questo risulta essere
una variabile fondamentale per fornire opportunità di emancipazione, di
inclusione, di potere (empowerment), di ripresa (recovery). A ben guardare,
molte economie aziendali e molti bilanci sociali dei comuni tengono
lontanissimi proprio i bisogni delle persone; basterebbe pensare alla diffusa
esistenza dei servizi sociali e alla loro irriducibile lontananza, alla
presenza dei distretti e alla loro complicata accessibilità. Oppure, nel campo
della salute mentale, basterebbe contare le tante risorse che vengono
utilizzate nelle strutture residenziali col risultato, ancora una volta, di
riprodurre sottrazioni, oggetti, separazioni. Si pensi che una persona in una
struttura residenziale costa in media più di 4.000 Euro al mese e di questo
denaro poco o niente ha a che vedere con la vita, le relazioni, l'emancipazione
della persona stessa. Per raggiungere questi obiettivi di integrazione molti
amministratori, direttori generali, programmatori regionali continuano a
proporre, e alcuni a sperimentare, la "fine del dipartimento". Vale a
dire inserire ed integrare la funzione salute mentale nella più ampia struttura
distrettuale. Ci sono buone ragioni, certamente, per sostenere questa forma di
organizzazione definita "dipartimento funzionale". La premessa
generale di queste buone ragioni è che con la legge di riforma sanitaria del
'78 il diritto alla cura ed alla salute è garantito a tutti, nella stessa
maniera. Dunque anche a chi vive l'esperienza della malattia mentale: non più
statuti separati per cittadini oggi uguali pur nella debolezza del loro
diritto. Le persone con disturbo mentale, affermano altri, sono (devono essere)
cittadini come tutti e tuttavia sono portatori di bisogni speciali ed ancora
sono oggetto di pregiudizio e luoghi comuni. Dunque, un dipartimento capace di
coordinamento e di assunzione di peculiari responsabilità ( come la strenua
negoziazione della cura, solo per esempio) che tuteli questi bisogni e diritti
deve essere forte, ovvero competente nell'affrontare con larghezza la
specificità della domanda e trascenderla nel costruire e sostenere
un'organizzazione articolata, accessibile e diffusa. Forte perchè dotato di
risposte differenti e molteplici capaci per ridurre ed indebolire i luoghi
comuni ed il pregiudizio, nonché di sostenere i processi di integrazione.
Proprio per via della sua storia , per essere in continuità con un
processo di deistituzionalizzazione, forse il più ampio, profondo e
anticipatore che si è verificato nel nostro paese, il dipartimento di salute
mentale dell'A.S.S.1 Triestina si trova a vivere con maggiore consapevolezza la
dialettica tra clinica e territorio: deve riconoscere persone e non malattie,
percorsi di vita e non prestazioni, bisogni di emancipazione e non trattamenti.
Non rinunciare alla tensione verso la guarigione clinica e tuttavia prendersi
cura della storia, delle relazioni, del quotidiano. Il rischio che sempre si
corre è sequestrare la vita con l'alibi della cura, sottomettere la vita ai
trattamenti. E' in questi termini che appare evidente e cruciale la questione
della separazione tra sociale e sanitario. Nel recente libro verde per la
salute mentale, la commissione del parlamento europeo che vi ha lavorato, tra
le criticità che riscontra nei servizi di salute mentale europei, denuncia la
persistente separazione, inutile e dannosa, tra i trattamenti sanitari e il
sostegno concreto alle persone, tra curing e caring, tra il sanitario ed il
sociale. Le forme organizzative e le integrazioni che cerca di scegliere e
attuare il dipartimento di salute mentale di Trieste vogliono evidenziare
proprio l'intenzione di sanare questa spaccatura. Da molti anni notevoli
risorse sono dedicate a quelle che chiamiamo "attività extra
cliniche": attività di socializzazione, sostegno ad associazioni e piccole
cooperative, borse di formazione e lavoro, sostegno a particolari inserimenti
lavorativi e all'abitare, attivazione di corsi e percorsi formativi, ricerca di
partner e compagini sociali (cooperative ed associazioni) per la gestione di
attività residenziali e ora, sempre più spesso, di sostegno alla vita
quotidiana. Lo strumento che abbiamo chiamato "budget individuale di
salute", governa sempre meglio programmi terapeutici riabilitativi che
tengono conto con molto dettaglio della quotidianità, della socialità, del
lavoro, dell'abitare delle persone, della loro singolarità, della diversità dei
loro bisogni, delle differenze. Si tratta di un investimento di risorse che
vuole contare e investire prima di tutto sul "capitale sociale" di
cui ognuno è titolare. Ripensando alla nostra esperienza e a quanto rileva il
libro verde è quanto mai opportuno avviare una radicale e profonda discussione
intorno a questa (non) ineluttabile separazione. Sempre più i dipartimenti di
salute mentale, ma anche tutte le attività sanitarie territoriali, devono poter
contare su ampie possibilità di gestione di risorse, che chiamerei indistinte,
né sociali né sanitarie, che devono sostenere i percorsi di ripresa, di
guarigione, di vita delle persone. Tale questione, che bisogna assumere come
centrale nel valutare le azioni di un dipartimento di salute mentale, dà
rilievo a un ulteriore problema: quanto l'organizzazione in se stessa,
l'aziendalizzazione, e i risultati basati su evidenze economiche debbano
prevalere o quanto invece le forme organizzative e le economie devono sostenere
obiettivi/evidenze che riguardano valori come diritti e libertà, dignità ed
emancipazione. Ovvero, quanto un'organizzazione, in quanto forte, debba essere
in grado di far fronte al rischio di nuove oggettivazioni, affermando una
visione delle procedure e dello stile di lavoro che tenga conto della
centralità delle persone, della debolezza dei loro diritti, della singolarità
dei loro bisogni. La mia impressione è che l'aziendalizzazione, così come
qualsiasi altra forma amministrativa (usare le risorse, scomporle e
distribuirle più o meno equamente, individuando obiettivi chiari ed azioni e
percorsi possibili) di per sé non contiene niente che possa ostacolare o
favorire un processo di crescita dell'impegno verso le persone, o meglio, dei
percorsi di ulteriore sviluppo nella prospettiva della deistituzionalizzazione.
Oggi la psichiatria deve rispondere non più solo a domande, in genere
improntate al controllo, che le vengono rivolte da altre istituzioni (ordine
pubblico, reparti generali della medicina, etc...) o dalla società in generale,
ma a domande fatte direttamente dai cittadini. Questa domanda pretende qualità
degli interventi, certezza e continuità delle cure, e - perfino - guarigione:
cambiamenti possibili. Un'organizzazione di servizi di salute mentale deve
saper dire e saper valutare a quali condizioni ottimali può avvenire e
realizzarsi un percorso di guarigione da un disturbo mentale. Oggi sappiamo che
esistono percorsi di "rimonta" virtuosi, percorsi emancipativi e
riabilitativi; virtuosi purché vengano rispettate determinate condizioni: la
relazione, la libertà, il diritto, in una dialettica tesa e fortissima tra
l'accettazione, il rifiuto, la negoziazione della cura.
Se immaginassimo l'aziendalizzazione e la gestione dei dipartimenti
soltanto come economia (e questa visione troppo spesso è prevalente), i sistemi
organizzativi si pervertirebbero e produrrebbero danni; se invece immaginiamo
l'aziendalizzazione come un percorso all'interno del quale si rendono più
chiari ed evidenti le domande e le risposte dei servizi in termini di percorsi,
trattamenti, opportunità, come accade nelle buone forme di gestione, l'essere
azienda sanitaria non può che favorire e rendere più forte la speranza che la
guarigione diventi davvero un obiettivo concreto ed accessibile. Riconducendo
questo discorso alla realtà della mia regione ci si potrebbe chiedere, ad
esempio, come mai in quasi tutti i dipartimenti si spende mediamente la metà di
quanto si spende a Trieste. Questo dato, letto come risultato, potrebbe portare
alla conclusione che una gestione capace di spendere meno sia la più
apprezzabile. Se su questo si insiste gli operatori e i dirigenti finiscono per
far propria questa immagine di gestione e di economia come se fosse un dato di
realtà immutabile, una sorta di prescrizione al risparmio contro l'idea dello
sperpero. Seguendo tale logica, anche i familiari, le persone con disturbo
mentale, i cittadini, gli operatori delle cooperative finirebbero per
incorporare questo dettato, accettando acriticamente qualsiasi assenza di
risposta, qualsiasi maltrattamento. Tradurre la gestione di un dipartimento di
salute mentale in attività focalizzate solo in queste economie, significherebbe
indebolire i servizi, distanziandoli dalla ruvidezza della quotidianità, fino a
renderli inutili. E' evidente che proprio questo è il senso malinteso
dell'azienda, della gestione, del rigore amministrativo. Le aziende sanitarie
si trovano ad aver già predefiniti capitoli di spesa "intoccabili"
(generalmente i reparti ospedalieri e i farmaci), e l'unica spesa comprimibile
resta proprio la psichiatria, insieme alla tossicodipendenza, all'intervento
con i bambini, insomma i servizi del territorio che si riconfermano così
marginali. Si tratta di attaccare questa logica che non è molto diversa, nel
suo determinismo, da quella che giustificava l'esistenza, quella volta costosa,
del manicomio. Tuttavia è più grande il rischio che letture che usano in
termini catastrofici le definizioni di azienda, aziendalizzazione offrano alibi
al non fare. Gli operatori dei servizi, di fronte al vissuto di un gigantesco
apparato economico e amministrativo si sentono deprivati del loro ruolo, della
loro professionalità, della loro autonomia e, paradossalmente, di fronte allo
spessore delle domande di qualità dei cittadini, rispondono demotivandosi e
deresponsabilizzandosi e rinviando ad una fantasiosa immagine "delle risorse
che servono" per la soluzione dei problemi. E' la stessa risposta che i
direttori fornivano quando si lavorava per il superamento del manicomio, quando
dicevano: "certo che lo chiuderei il manicomio, se me lo facessero fare,
se avessi a disposizione altre risorse, nuovo personale...". Vi è, infine,
un altro aspetto da sottolineare, che sembra contraddire il precedente:
l'azienda può definire linee ed obiettivi, e introdurre elementi ordinativi
nelle procedure e nei programmi degli operatori e di maggiore certezza per i
cittadini. La definizione di procedure, di linee-guida, così come la
trasparenza e la valutazione possono antagonizzare le psichiatrie che fino ad
ora hanno dominato il campo, improntate alle ideologie della "libera
scelta ", delle autonomie professionali e che in realtà riproducono nel
pubblico il modello privato libero-professionale. Era del tutto evidente che il
manicomio non poteva rispondere ai bisogni singolari e differenti delle persone
costretto com'era dalla rocciosa indiscutibilità del mandato sociale, da
culture quanto mai astratte e basate sull'oggettivazione dei comportamenti
piuttosto che sulla peculiarità della vita e dei contesti delle persone, da
bilanci rigidi e limitati alla riproduzione dell'istituto. E appare altrettanto
evidente che oggi le programmazioni regionali, le aziende sanitarie e, per
esse, i dipartimenti di salute mentale rischiano di non rispondere ai singolari
bisogni se non ricercano scelte di campo e strategie per uscire dalla
costrizione dei bilanci irrimediabilmente limitati, delle programmazioni tanto
distanti quanto astratte, basate su medie omologanti piuttosto che sulle
peculiarità delle persone e dei contesti. La scommessa, nel nostro lavoro,
allora nel manicomio come ora nei territori non è altro che governare il
cambiamento, ossessivamente il cambiamento, attorno alle persone.
(Tratto da: Giuseppe Dell'Acqua,
"Aspetti evolutivi dei servizi di salute mentale nel contesto di
Trieste"
"Il governo dei servizi sanitari territoriali: logiche, strumenti e processi" (in pubblicazione)
"Il governo dei servizi sanitari territoriali: logiche, strumenti e processi" (in pubblicazione)
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